da__ Venerdi, V quaderno azzurro __

La confessione di Cappotto pag. 73


Ancora per qualche istante Cappotto fronteggiò Nonnino, poi qualcosa lo fece sussultare violentemente; raggiunse barcollando una sedia e vi si accasciò, scoppiando in un pianto dirotto.
Nonnino si alzò lentamente, s'avvicinò al povero vecchio Cappotto, gli accarezzò le spalle logore e con voce pacata gli domandò:
<< Perchè l'ha fatto? >>
<< E' una storia lunga, lunghissima...Temo che non possa capire - rispose Cappotto del tutto cambiato, avviando la sua difesa, o, come la si preferisca definire, confessione, espiazione - Lei ha giustamente osservato che sono ridotto male; che di certo devo essermela passata brutta e che ormai non posso essere altro da quello che sono: cinico, scaltro, volgare... Ah, signore, lei ha ragione. Non so chi altro durante la vita abbia ricevuto più botte di me! Mi picchiavano spesso, quasi ogni giorno e a che pro? Solo per togliermi di dosso un po' di polvere. Guardi, sono pieno di sporcizia e di ammaccature...
Eppure c'è stato un tempo in cui ero bello, pulito, senza macchie. Dondolavo sopra lussuosi attaccapanni di velluto. Tempi lontani, cento forse duecento anni or sono, una bella epoca romantica: vestiti sontuosi, profumi, serenate, sfide titaniche, avventure galanti, giochi, duelli e poesia...e che poesia!
Alexander Sergejevic... Erano tempi gloriosi...
Del mio colore grigioazzurro brinoso, uva di Sauvignon, ora non c'é più traccia...Provenivo da Kostomarov, il miglior sarto di Pietroburgo dell'epoca e il mio primo padrone, la prima volta che m'indossò, per poco non gridò di gioia e di stupore. Non smetteva di accarezzarmi, ammirandosi compiaciuto nel grande specchio veneziano. Lo rivedo come se fosse adesso prendere il flaconcino di Euau di Farina e spruzzarmi i risvolti...
Da giovani ci amano tutti, tutto ci dona e con noi tutti sono premurosi e gentili.
E siamo corsi da lei, perchè era proprio là che il mio padrone aveva fretta di andare.
Era seduta alla spinetta e suonava. Aveva un vestito grigio-topo con dei ricami bianchi... Ah, quella gonna ampia con tutti quei falpalà e quelle rosette grigie! Mi sono innamorato subito.
Ora non ricordo più se fui io o il mio padrone, o tutti e due insieme, a correre subito verso di lei e a cadere tra le sue braccia. Lei gridò: ancora oggi risento quel grido di gioia e di turbamento ...
Caro signore, vede queste maniche? Con queste maniche ho stretto la seta del suo corpetto, seta deliziosa, coperta di trine e su quelle trine s'inarcavano spalle bellissime, lisce, candide. Su questo petto ho sentito il seno turgido di quella donna; lei conosce piacere più voluttuoso ?
Il mio padrone era felice - ed ero felice anch'io... << Hai un paltò nuovo? Come ti sta bene! Lo sai, Alojsa? Sei proprio un bel giovane. Il mio ragazzo >> - gli sussurrò guardandoci con amore; ma so che guardava soprattutto me: ne sono certo.... Una vita cominciata così prometteva d'essere un'avventura meravigliosa e profumata, colma di tenerezze rosee e insinuanti...
Col mio padrone frequentavamo case grandi e lussuose. Vero è che il mio signore mi lasciava in anticamera dove i servi mi prendevano con garbo, ma attendere può essere bello se si aspetta qualcuno che si ama, colui che si sa che ritorna e che è la nostra anima stessa...
Sa, signore, noi indumenti siamo vivi solo se dentro di noi c'è il nostro padrone: per noi lui è il nostro dio vivente, la nostra ragione di vita, il significato stesso del nostro esistere. Egli ci riscalda esattamente come noi riscaldiamo lui. E respira per noi...
Una volta, al museo del costume, ho visto dei miei colleghi indosso a manichini di cera. Mi sono reso conto a colpo d'occhio che erano ben curati, ma quando ho rivolto loro la parola, mi sono accorto con orrore che erano morti...
Noi soprabiti amiamo stare all'aria aperta, anche col vento e col maltempo. Il fatto che i nostri padroni abbiano bisogno di noi, che ci stringano con più determinazione, ce li fa sentire nostri e ci fa sentire indispensabili. E' questa intimità a renderci felici...
Quante belle passeggiate in carrozza, lunghe passeggiate in parchi fuori mano, in giardini ombrosi ricchi di fontane! Io, il mio signore e lei: naturalmente lei era sempre con noi...
Io che conosco i segreti più intimi, quelli delle lettere nascoste nelle tasche, so che il postiglione consegna tutta la posta accompagnandola sempre con lo stesso squillo di tromba, sia le dichiarazioni d'amore, che gli annunci funebri. Ma io non potevo essere considerato solo un puro e semplice postiglione perché le mie tasche sono parte integrante di me ed io ero completamente partecipe alla vita del mio signore. Ero il testimone dei loro colloqui più intimi. Quando si perdevano l'uno nell'altro e si parlavano sottovoce, pareva che attorno a noi ci fossero le cose più belle del mondo e il presente diventava tenero, morbido e rosa come le loro labbra...
Poi ci furono le nozze. Che gioia! Non dimenticherò mai quei giorni, nè quelli che seguirono. Non so cosa successe, ma dopo il matrimonio qualcosa finì.
In apparenza non era cambiato nulla, ma il mio padrone subì una trasformazione radicale. Ad eccezione di me che gli ero il più vicino, nessuno si era accorto di niente. Col trascorrere del tempo si notava che era diventato più triste, ma sembrava pur sempre lui: un signore un po' trasognato, cordiale e cortese.
Scriveva più di prima. Ogni momento libero, non facile da trovare in quella sua vita così movimentata, lo trascorreva alla scrivania. Altre volte si vagabondava per le strade, o partivamo alla ventura verso qualche destinazione.
Andavamo anche in campagna ed era pressochè una fuga, dalla quale qualcosa di irresistibile ci costringeva a ritornare. Là, al podere del padre, credo si sentisse più libero. Là mi sono legato a lui con maggiore affetto...
Facevamo passeggiate interminabili in mezzo ai boschi, attraverso campi sterminati. Erano momenti di abbandono profondo, durante i quali il cuore del mio padrone batteva sotto di me con ritmo insolito, un ritmo che ascoltavo come una musica... E poi le lunghe ore notturne passate alla scrivania, fino alle prime luci del mattino! Scriveva, scriveva, scriveva con tale concentrazione da perdendo il senso del tempo e dello spazio.
Era un poeta, non glielo avevo detto? Un grande poeta, forse il più grande e toccante che sia mai esistito...
Leggeva, scandiva i versi, li recitava nell'intimo: sentivo il suo mormorio...
Una volta, mentre leggeva un foglietto trovato sulla scrivania, gli vennero le lacrime agli occhi:
Timidamente bacio la tua immagine
per l'ultima volta, segretamente
piango le ombre del perduto amore,
ombre vaghe, ma dolci e appassionate...
Ha trascorso molti giorni in questo stato... A volte mi pareva che la malinconia del mio signore fosse sul punto di dileguarsi, sopita alla luce di nuove speranze. Di nuovo il sorriso gli affiorava alle labbra, ma poi, di punto in bianco, eccolo rifugiarsi ancora nella vecchia tristezza. Probabilmente tornavano a riaprirsi le vecchie ferite del cuore...
Uno sventurato giorno tutto prese una svolta ineluttabile, tutto, ormai prossimo a franare, cadde a pezzi come se qualcuno avesse toccato un meccanismo delicato con mano maldestra .
Era d'inverno. Il signore mi indossava di rado. Restavo appeso nell'ingresso, quasi dimenticato. Lo vedevo andar via con la sua nuova marsina azzurro scuro, un fiore all'occhiello, assieme alla signora che indossava magnifiche toilette da sera.
In quei momenti era ancora più bella, più attraente, più irraggiungibile...
Prima di uscire, lei si guardava ancora una volta allo specchio dell'ingresso, proprio di fronte a me; il signore, aspettando in disparte, la fissava furtivamente con lo sguardo pieno di tenerezza e di desiderio...
Quel giorno, o meglio la notte in cui avvenne la rottura fatale, l'apice del dramma, erano tornati tutti e due molto turbati.
La signora si diresse nelle sue stanze senza dire una parola. Il signore era pallido, agitato, faticava a mantenere il controllo. Io che lo conoscevo intimamente mi accorsi che aveva voglia di piangere...
Il giorno dopo, di mattina presto mi indossò, mi buttò sopra una pelliccia e uscimmo per le strade nebbiose.
Da prima girovagammo senza meta, poi andammo a far visita ad alcuni amici del signore, coi quali prese accordi per qualcosa; in apparenza pareva tranquillo, ma io sentivo il suo cuore inquieto battere allarmato e non andare all'unisono con quei discorsi strani che faceva, nel bel mezzo dei quali il signore ebbe persino il coraggio di ridere almeno un paio di volte.
Fuori però, rabbrividendo per l'inquietudine interiore, egli si stringeva ogni momento addosso la pelliccia.
Camminammo per parecchie ore senza meta. Ogni tanto si fermava, come se si trovasse di fronte a un erto muro invalicabile e, sospirando grave, pronunciava il nome di lei...
Il terzo giorno s'alzò molto presto.
Dall'entrata, dov'ero appeso, lo sentii canticchiare. Ero sorpreso e felice perché supponevo che i tempi bui fossero finiti, almeno per il momento. Il signore, però, fingeva soltanto di essere di buonumore. Niente era cambiato. Gli eventi si susseguirono inesorabili. Verso mezzogiorno venne un suo ex compagno di liceo.
Era serio, mesto. Pure lui cercava di apparire spensierato.
Si accordarono su qualche cosa, nello studio. Poi uscirono e il mio signore che stava per indossare la marsina, si fermò davanti a me, mi accarezzò e mi disse ( era la prima volta che mi parlava):
<< Ah, vecchio mio! >>
Quindi mi indossò e si mise la pelliccia. Ero commosso.
Fuori ci aspettava una slitta.
Montammo con l'amico del signore e ci recammo fuori città. Nessuno parlava.
Improvvisamente fui preso dall'ansia. A giudicare dal respiro e dai battiti del cuore, anche il signore era, per così dire, stretto da una morsa d'angoscia. Avrei voluto rasserenarlo in qualche modo, ma cosa può fare un povero pastrano oltre a tenere caldo ?
Ci fermammo su un sentiero scosceso, poco lontano da un boschetto affogato nella nebbia invernale.
Qui ci aspettavano in silenzio alcuni signori. Si salutarono con freddezza.
L'amico del mio signore si mise d'accordo con uno di loro su qualcosa. Poi cominciarono a contare i passi, come se giocassero. Il signore si tolse la pelliccia. Il nostro amico sfoderò dalla custodia una pistola e la consegnò al mio padrone.
Il signore la prese in silenzio. Quindi raggiunse un punto prestabilito di quel sentiero impraticabile .
Era davvero un gioco strano. Egli stava immobile e tratteneva il respiro.
Di fronte a lui si piantò uno di quegli sconosciuti. Anch'egli aveva in mano una pistola.
Poi qualcuno contò fino a tre.
Il mio signore, in piedi, eretto, non guardava affatto l'uomo che gli stava di fronte, ma qualcosa che era al di sopra di lui e del boschetto nebbioso.
Calò uno silenzio spettrale.
L'uomo di fronte alzò la mano armata di pistola e mirò contro il mio padrone. Puntava dritto a me, dritto al mio petto...Dio, che momento terribile.
Echeggiò uno sparo.
Il mio signore sussultò colpito, per un poco rimase in piedi immobile, poi stramazzò a terra... Mi sentivo intridere da qualcosa di caldo che sgorgava dal suo corpo. Giacevo con lui sulla neve e stavo perdendo i sensi...
Poco dopo il mio padrone si riebbe e, puntellandosi con tutte le forze sul gomito sinistro, sparò anche lui.
Non so cosa sia successo dopo. Come avvolto in una nebbia percepivo che qualcuno ci alzava da terra e ci adagiava nella slitta...
A casa... ah, non mi faccia parlare dei due giorni tremendi che seguirono, della morte del signore. Sì, la morte... Non ci volevo credere: non ci riuscivo e tutt'ora faccio fatica; continuavo a pensare che non fosse morto, che fosse stato solo un sogno orrendo, un brutto scherzo odioso; continuavo a pensare che fosse vivo, che per forza doveva essere vivo...
La notte in cui lo portarono via, mi abbandonò tutto il calore, restò solo quel suo profumo che durante la vita aveva significato tutto per me, rimase per tanto tempo ricordo doloroso...
Cappotto ammutolì e sospirò con gravità. Meccanicamente si portò una manica nel punto in cui, tra le macchie ingrigite, c'era un vecchio foro rappezzato da una toppa ormai consunta e sfilacciata.
Quindi continuò, di nuovo immerso nei ricordi:
<< Poi m'indossò il servo del mio signore e con lui ho lasciato la casa del
mio padrone. Non era un uomo cattivo e mi pareva che adesso si comportasse con me meglio di quanto non facesse quando il padrone era vivo, ma non c'era niente da fare: non era il mio signore...
Fu lui a rammendarmi con cura il foro - si vede ancora - e a smacchiare, quanto meglio poteva, le chiazze che c'erano attorno.
Ormai quelle non si vedono più: ma mi hanno bruciato così a lungo.
Poi, col procedere della vita sono passato da un proprietario all'altro: una vita monotona, senza grandi avvenimenti.
Diventavo sempre più grigio... Sa, Nonnino, tutti da vecchi raggiungono una posizione migliore: godono di maggiore prestigio e di condizioni più solide. Ma per noi indumenti accade il contrario. Noi cadiamo inesorabilmente sempre più in basso.
Il nostro destino è ben poco invidiabile, la nostra vecchiaia triste e miserevole. Finiamo in stracci o nei campi a fare gli spaventapasseri, laceri, distanti da tutto ciò che un tempo amavamo tanto. Crepiamo alle intemperie, sotto lo sguardo indifferente di colui che abbiamo difeso con ogni nostra cucitura.
Non starò a raccontarle di come sono arrivato da quella terra fin qui, nel paese delle favole kobaltiche, nè delle vicissitudini che mi sono capitate, nè in qual modo alla fine , sempre più rattoppato, mi sono stabilito dal mio ultimo padrone, il signor Rumàk: si tratta di una catena ininterrotta di decadimento che non può essere scansata neppure dal cappotto di un re.
Il signor Rumàk mi comprò da uno straccivendolo.
La bottega degli stracci è un posto ripugnante quanto un ospizio di vecchi.
A quei tempi il signor Rumàk era ancora molto povero.
Aveva cominciato come un piccolo distillatore di acquavite. Non aveva neppure i soldi per comprarsi una giacca nuova. Io ero il suo migliore capo di abbigliamento. Nei miei confronti era anche fin troppo attento. Ogni giorno mi spazzolava e mi sbatteva con il battipanni: una vecchia pettegola che si vantava di aver lavorato in teatro, ma in realtà era una battona, una vecchia sadica che mi avrebbe ammazzato volentieri a suon di botte.
Sul principio ero convinto che il mio padrone mi volesse bene, dal momento che aveva continuato a indossarmi sebbene gli affari che andavano meglio avrebbero potuto consentirgli di permettersi un pastrano migliore e buttarmi nell'immondezzaio. Più tardi, però, scoprii la vera ragione della sua preferenza.
Più le cose andavano bene, più beveva. Dapprima si limitava a ciò che chiamava "assaggi", poi cominciò a bere dove e quando poteva. Davanti agli altri, tra amici, continuava a comporsi in modo decente, ma a casa cominciò a essere sciatto, a perdere il rispetto di sè, a diventare volgare.
Così piano piano la mia vita diventò un inferno.
Spesso mi sbrodolava di bevande senza il minimo pudore, spesso, indossandomi, si rotolava nei fossi e mi vomitava addosso. Tutto ciò mi indignava moltissimo. Le mie cuciture non reggevano più a tali maltrattamenti e dovevo faticare non poco per non cadere a pezzi per rabbia e per disperazione.
La tragedia era che non riuscivo più sopportarlo.
Non dava più aria alla casa, mentre per me l'aria fresca è indispensabile: e mi piace.
Puzzava in maniera spaventosa!...
Sa, signore? La peggior cosa che possa capitare a un cappotto è di non tollerare più il proprio padrone. Come le dicevo prima, per noi indumenti i proprietari sono i nostri idoli, la nostra anima stessa, si immagini quindi cosa significa non riuscire più a sopportare la propria anima, la propria essenza più profonda.
Tentavo di giustificarlo come potevo, almeno per conservare un briciolo di autostima.
Cercavo di salvarlo ai miei occhi, dicendomi: << Un altro ti avrebbe già regalato a un barbone, oppure ti avrebbe ridotto da tanto in stracci per lavare pavimenti...forse mi vuole bene davvero; ma quando ho scoperto che mi indossava solo perché non era altro che un cialtronaccio, mi sono sentito così offeso e indignato come può sentirsi solo un cappotto davvero per bene...>>
Di nuovo Cappotto tacque scrutando Nonnino.
<< Non so perché stia raccontandole tutto questo e mi dilunghi in tanti particolari! Considerazioni inutili! Lei si è già fatto un'opinione ben precisa su di me: per lei non sono altro che un mascalzone, un individualista sentimentale, un assassino...no, per favore, non mi contraddica; sì, lei mi considera un assassino: questa è la parola giusta, perchè io l' ho ammazzato...>>
Cappotto aveva la voce rotta e si interruppe per riprendere fiato.
<< Sì, ho impiccato Rumàk all'attaccapanni: l' ho impiccato volontariamente e con premeditazione. L' ho ucciso come si sopprime la propria anima, la propria ragione di vita, quando ci si rende conto che tutto ci crolla irrimediabilmente addosso e null'altro ci rimane dentro se non quella dolorosa malinconia torbida e singolare che può comprendere solo chi, diventato un vecchio oggetto inutile, l' ha vissuta sulla propria pelle. Mi sono sentito attanagliare dal rimpianto di tutto, da un' angoscia indescrivibile... e l' ho ammazzato...
Io sono stato appeso fin da quando sono nato. Tutti mi hanno sempre preso e in un amen agganciato a un chiodo. Io non ho mai protestato, pensavo: "fate pure". Ma quando Rumàk ha cominciato a bistrattarmi, a buttarmi ogni volta sull'attaccapanni con tale malagrazia che solo per miracolo non mi si strappava il bavero, quando a volte, ubriaco fradicio, ci impiegava anche mezz'ora ad appendermi, sentivo crescere in me una grande afflizione, una depressione tremenda, e alla fine ho capito che tutto ciò era peggio di finire a lavare i pavimenti da straccio. E mi sono detto: dunque, maledetto ubriacone, dovrai essere sempre tu ad appendermi? Prima o poi sarò io ad appendere te! E alla fine l' ho impiccato...
Ah, mi creda, signore, non l'ho fatto per malvagità, no, ma per disperazione, una disperazione profonda come i boschi della Siberia...>>
Cappotto ammutolì. Aveva concluso la confessione con un filo di voce, appena percettibile. Stava seduto di fronte a Nonnino e sembrava la personificazione stessa del dolore...
Le confessioni sincere riescono a mettere in ginocchio anche il più incallito dei delinquenti.
Anche Nonnino stava in silenzio, fissando pensieroso il vecchio pastrano ormai muto. Mentre Cappotto parlava era stato tentato di interromperlo almeno un paio di volte, di fargli delle domande, ma aveva soprasseduto per tatto. Adesso si sentiva in dovere di dire qualcosa, perlomeno come amico di Rumàk. Il suo silenzio avrebbe potuto venire interpretato come segno di solidarietà nei confronti di Cappotto per la sua tragica esistenza e come approvazione della sua sete di vendetta. Ma essergli solidale non era possibile, considerata la brutta fine fatta da Rumàk. Rumàk era quello che era ma, in fin dei conti, non aveva mai fatto del male a nessuno. Distillava rum e se lo beveva. Guardare il mondo attraverso un mastello di rum è estremamente diverso che guardarlo attraverso gli occhiali di un giudice. Il poeta aveva recitato i suoi versi, mentre Rumàk aveva bevuto il suo rum e tutti e due l'avevano pagata cara, perché nulla su questa terra è dato gratuitamente...
E dunque, cosa fare? Emettere una sentenza? Condannare il povero Cappotto che per tutta la vita aveva servito fedelmente sino a ridursi letteralmente a pezzi?
Nonnino non se la sentiva.
<< Non siamo mica pesci. - si disse insofferente per la propria indecisione, ma gli tornò subito in mente la storia della piccola aringa d'argento e di Pesciolino d'oro, quindi pensò in cuor suo - Anch'essi hanno le loro passioni! Cosa dire? Lui indubbiamente una cosa l' ha fatta: ha confessato e dunque va perdonato dal momento che sembra pentito...Com'è quella storia della pietra nella Bibbia...? Non è facile fare il prete e ancora meno il giudice. - sospirò Nonnino - Tutto ciò Cappotto lo deve risolvere dentro di sè...>>
<< Sa cosa le dico ? - disse alla fine rompendo il silenzio che gravava nello studio - Ecco: andiamocene a pranzo, che ne dice? E pensiamo ad altro.>>
Ma Cappotto non si mosse. Giaceva inerte nella poltrona, irrigidito nella stessa posizione di quando aveva finito di confessarsi.
Quando Nonnino si chinò su di lui, s'avvide che il caro Cappotto di Rumàk aveva smesso di respirare...
<< E così sei arrivato a destinazione, figliolo: partito e con l'assoluzione .>> - bisbigliò un po' confuso e si guardò attorno titubante nello studio azzurro prugna.
Sospirò, poi, dopo aver riflettuto un momento sussurrò qualcosa.
Sollevò quindi il pastrano con dolcezza per adagiarlo nel cassetto del comò stile impero, dove teneva altri ricordi morti.
In quel cimitero di memorie dal profumo di timo secco il pastrano, un tempo di color blu uva Sauvignon, fu seppellito nel migliore dei modi.
Mentre lo teneva ancora tra le braccia, Nonnino s'avvide che da un buchino sul davanti del pastrano fuoriuscivano alcuni filamenti. Guardò con più attenzione. Si trattava dello stesso foro che gli aveva mostrato Cappotto durante il suo racconto, solo che prima era rammendato con cura. Nonnino osservò ancora una volta il forellino e gli parve di vedere alcune macchie arrossarsi e diventare umide.


Da Il funerale di Rumàk pag. 96


…e lo seppellirono al crocevia
di strade coperte di sogni spenti…
Strade dove errano pazzi silenti
e corrono su e giù bambini assorti
dove sculettano ubriachi in erba
e va il Padre dei Balty sconcertato
assieme ai suoi poeti stravaganti.
Laggiù sotto il tumolo giace Rumàk
avvolto nei sogni imbevuti di rum
là gonfio di paura aspetterà
degli angeli gli squilli della tromba
che chiameranno bevitori in polvere
ai cieli scialbi di giornate atemie.


libro